CASO RAPPOCCIO (3) // Rappoccio, da “dimissionario precario” a bi-consigliere “congelato”
In conferenza stampa, qualche giorno fa, specie nel sentire il pur sempre validissimo avvocato Giacomo Iaria sottolineare che il suo assistito Antonio Rappoccio ormai «gode di un credito oggettivamente minore» che in precedenza, dopo la tortuosa vicenda giudiziaria abbattutasi su di lui e tanto più dopo sei mesi di custodia cautelare in cella e altri quattro mesi ai domiciliari, questo blogger la questione non aveva potuto non porla.
Ferme tutte le possibilità di difesa per Rappoccio “ormai” uomo libero, ferma restando la facoltà per l’eletto di “Insieme per la Calabria” di chiedere la reintegrazione in Consiglio regionale una volta venuta meno la misura cautelare nei suoi confronti, merita la Calabria – anche per un periodo circoscritto, ossia fino al 24 settembre – di annoverare tra i suoi 50 consiglieri a Palazzo Campanella un rappresentante che la sua stessa difesa tecnica ritiene ormai (giustamente o meno) screditato?
Diciamo sùbito una cosa: in Assemblea – nell’inizio dei lavori consiliari – sùbito prima della conferenza stampa citata –, l’unico ad aver avuto qualcosa da ridire è stato il consigliere regionale rendese Mimmo Talarico (nella foto a sinistra), unico in tutto il consesso a votare “no” alla reintegrazione di Rappoccio.
Non è un passaggio da poco.
Il procuratore capo di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho, dopo la revoca dei domiciliari nei confronti dell’ex esponente del Pri (che ai giornalisti ha peraltro precisato di essersi sentito «abbandonato» dal Partito repubblicano e di non riconoscercisi più, e di non aver concordato la propria condotta rispetto allo scranno assembleare né col partito guidato su scala nazionale da Franco Nucara né, tantomeno, dalla lista “Insieme per la Calabria” in cui il primo dei non-eletti Aurelio Chizzoniti è stato anche il suo più implacabile accusatore, fino a prenderne il posto a Palazzo Campanella), aveva formulato una richiesta di “revoca della revoca” rispetto alla misura cautelare degli arresti in casa. Una richiesta respinta, in estrema sintesi, con la mancanza di riscontri «ufficiali» sulla volontà di Antonio Rappoccio di tornare in possesso del proprio incarico da consigliere regionale. Tradotto dal magistratese: se la richiesta verrà reiterata una volta tornato Rappoccio componente del Consiglio, sarà arrestato di nuovo.
Adesso, la svolta; una svolta umiliante – va detto – per l’Istituzione regionale, nei fatti “bacchettata” dalla magistratura.
Dal Cedir (nella foto a destra, il procuratore capo Federico Cafiero de Raho, che ha firmato la richiesta insieme al sostituto procuratore Stefano Musolino) è stata infatti reiterata (com’era scontatissimo…) la richiesta di arresti domiciliari o, in alternativa, di divieto di dimora in provincia di Reggio Calabria a carico dell’ormai nuovamente consigliere regionale di “Insieme per la Calabria”… Detto, fatto.
I giudici del Tribunale in composizione feriale (giudice Matteo Fiorentini, presidente Rodolfo Palermo) hanno accolto la richiesta; e anche questo era assolutamente nell’aria.
In particolare (andando forse leggermente ultra petita) hanno sancito la misura cautelare del divieto di dimora sull’intero territorio regionale nei confronti del dipendente Afor già rinviato a giudizio per associazione a delinquere, corruzione elettorale aggravata, truffa e peculato.
Inutile dire che quindi la vita da “consigliere-bis” per Antonio Rappoccio è durata solo sei giorni: il divieto di dimora in Calabria è del tutto equivalente a una nuova sospensione dalla carica istituzionale.
Peculiari, poi, i contorni della decisione.
La misura cautelare è stata disposta in relazione al «concreto pericolo» che, tornato consigliere regionale, Rappoccio (benché avesse già annunciato ufficialmente la propria intenzione di non avvalersi di alcuno staff…) «riallacci i legàmi con la struttura organizzativa di cui al reato associativo», insomma possa ri-allestire una struttura in seno all’Ente, cosa della quale ha facoltà come ogni consigliere regionale, e commettere dunque ulteriori reati dello stesso tipo di quelli contestatigli, magari ancòra in sodalizio con «soggetti per la maggior parte gravitanti nell’ex gruppo consiliare del Pri».
Si sostanzia così un «aggravamento» delle esigenze cautelari connesso alla «mutata situazione» – il tornare Rappoccio consigliere regionale – che, si precisa, «in quanto tale, non c’è certo censurabile dall’Autorità giudiziaria, in quanto prerogativa dell’autodisciplina interna all’Ente».
Ed è qui che scatta il sottotesto rispetto alla decisione del Tribunale reggino: cosa ha fatto l’Ente per impedire che Rappoccio tornasse “impunemente” nella pienezza delle funzioni? Un implicito quesito che andrebbe completato però col riferimento alla reintegra come una sorta di “atto dovuto” dell’Assemblea, tanto più dopo previo parere conforme di matrice ministeriale.
Il divieto di dimora sull’intero territorio calabrese è poi motivato con la circostanza che, durante il suo mandato, Antonio Rappoccio avrebbe «esteso nell’intero territorio della regione (…) il proprio bacino di relazioni». Ecco allora l’opzione di allontanare l’eletto di “Insieme per la Calabria” dal «tessuto relazionale del luogo d’influenza»: non la città di Reggio, bensì l’intero territorio calabrese.
In più, le dimissioni di Rappoccio a partire dal 24 settembre prossimo, secondo il Tribunale di Reggio Calabria «non conducono alla volontà del predetto di dissociarsi dal contesto di riferimento».
Insomma è chiaro una volta di più, come già si era osservato in conferenza stampa, che rimanere consigliere regionale (benché da “dimissionario precario”) non è stata certo la scelta più azzeccata che Antonio Rappoccio potesse operare, in particolare rispetto alla «libertà» da lui più volte evocata durante l’incontro coi cronisti come «il bene più prezioso» e adesso, se non negata, certamente limitata di brutto dalla magistratura.
E il Tribunale glielo dice chiaramente: non dimettersi immediatamente, anzi ancor prima della scarcerazione, secondo i magistrati fa supporre che Rappoccio intenda «permanere in seno al Consiglio per finalità diverse da quelle istituzionali».