Napolitano, Bersani, Renzi e Grillo. Due o tre cosette che il Pd non sembra aver capito, ma gli italiani sì
Poche ore, e il dilemma circa la formazione del nuovo Governo sarà sciolto: giusto domani i “big” (prima Beppe Grillo, poi Silvio Berlusconi, quindi Pierluigi Bersani) si recheranno al Quirinale dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per la seconda, ultima giornata delle consultazioni.
Raro, ma stavolta la prima giornata di questo “giro” s’è rivelata però ben più decisiva della seconda: appena scesi dal Colle, i presidenti di Camera e Senato (Laura Boldrini e Piero Grasso rispettivamente) hanno parlato senza locuzioni tortuose di assoluta necessità di dare un Governo al Paese. Questo presumibilmente si può tradurre così: il mandato a Bersani sarà soltanto “esplorativo”, visto che Cinquestelle non lo voterà mai e specie a Palazzo Madama non c’è altra sponda cui affidarsi. E poi ci sarà il tentativo dell’ex Procuratore nazionale antimafia.
Due annotazioni sul punto: intanto, gli elettori pd (non parliamo di altri….) dovrebbero caldamente sconsigliare, da sùbito, al loro segretario nazionale di tentare pastrocchi improponibili, tipo varare “a tutti i costi” un esecutivo che però non abbia una reale e solida maggioranza in una delle due Camere ma, al Senato, s’arrischi a fidare sullo smunto drappello dei senatori del premier uscente Mario Monti e, addirittura, sul risicato drappello dei senatori a vita, soprattutto perché contare persino su questi suffragi come voti ineliminabili per la sopravvivenza del Governo centrale sarebbe chiaramente da avventurieri. L’esatto bisogno di cui il Paese – specie agli occhi dell’Europa… – ha oggi bisogno. Poi però, un’altra cosa: sarebbe bene che fin da ora i cinquestellini chiarissero se un ipotetico governo Grasso potrebbe davvero vederli in maggioranza, senza far affondare la Nave Italia o comunque tornare al voto nel giro di un mucchietto di settimane. E, soprattutto, dovrebbe il centrosinistra chiarire se un esecutivo del genere sarebbe o no sorretto convintamente… Anche perché, diciamolo, non si può giocare con chi ha avuto in mano i destini della lotta alla ‘ndrangheta e alle altre mafie, non si può neanche pensare d’inviarlo a fare un “giretto esplorativo” con la riserva mentale di tornare alle urne anche se poi una maggioranza ci fosse. E abbiamo il fondato sospetto che il primo a respingere al mittente un ragionamento impolitico di questo tipo sarebbe giusto Piero Grasso.
Perché bisogna rispondere ora? Ma perché il centrosinistra, e il Pd in particolare…, non sembra aver messo molto bene a fuoco due-tre cosette che, invece, gli italiani hanno chiarissime.
In questi giorni, per dire, si fa un gran tuonare contro l’ex rivale bersaniano alle Primarie per la premiership del centrosinistra, Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze, che non ci ha messo granché a esternare tutti i propri amplissimi dubbi sulle reali chances di Bersani di formare un Governo che abbia la fiducia delle Camere e poi non paralizzi il Paese, “lavorerebbe contro il suo stesso partito / la sua stessa coalizione”, starebbe facendo il gioco degli avversari etc. etc.
Peccato che dire quest’asserzione da un lato fotografi una realtà parziale, dall’altra sia un’affermazione che parecchi operano in malafede. Il punto, diremmo, è non volersi accorgere che i renziani non sono i fautori di un competitor rispetto a Pierluigi Bersani e a un certo tipo di nomenklatura: tutto lascia invece pensare (purtroppo: perché questo tipo di conseguenza nulla c’entra con lo spirito delle Primarie!, tantomeno dei suoi modelli come quello Usa) si tratti invece di una cospicua fetta del Paese che identifica in Renzi un’àncora di salvezza rispetto all’autoreferenzialità di una classe dirigente che sta affondando ma – cosa assai più grave – starebbe facendo colare a picco l’Italia. Una fetta di Paese che, una volta deciso a maggioranza in sede di ballottaggio che il candidato per Palazzo Chigi non dovesse essere il primo cittadino gigliato, ha preferito in larga parte votare per Beppe Grillo.
Questo concetto dev’essere chiaro, altrimenti a nostro parere non se ne esce fuori.
La questione di Matteo Renzi leader non è decisiva perché risolverebbe un problema interno al Pd, ma perché in chiave di futuro prossimo impedirebbe a molti, molti voti piddini di prendere l’autostrada che porta al Movimento Cinquestelle e schiuderebbe, in definitiva, la possibilità di ritornare in sella ma con un Governo “vero” e di prospettiva. La spaccatura all’interno dei dèmocrat che non s’è consumata tra “cattolici” e “sinistrorsi” (benché preconizzata da molti qualificati osservatori) nei fatti è già stata sancita, ma nel segreto dell’urna, tra bersaniani e renziani “lealisti” da una parte e, dall’altra, tra quanti pensano che nello stesso Partito democratico, se non ci si rinnova in maniera potentissima e alla velocità della luce – vedi designazione dei Presidenti delle Camere -, non c’è nulla da salvare e piuttosto è meglio affidarsi al “guru” di turno.