Racket & usura, il finto scandalo. I commercianti non denunciano. E lo Stato……

Il tema in Calabria è di quelli potenti.  «Non ci sono imprenditori che fanno la fila ai nostri uffici per denunciare… non siamo credibili, ecco il punto!», aveva sbottato pochissimo tempo fa il procuratore aggiunto della Dda reggina Nicola Gratteri in relazione a due fenomeni perversamente intrecciati fra loro e alla ‘ndrangheta: racket e usura.

Per la verità, sul punto le “verità rivelate” nell’ambito della Conferenza regionale delle autorità di pubblica sicurezza tenutasi a Reggio appena 24 ore fa, praticamente, nulla aggiungono e nulla tolgono. Anche perché Sos Usura e altre significativissime associazioni di settore da anni fanno sempre la stessa predica: il problema non è sensibilizzare, il problema non è contrastare o reprimere…. il problema è denunciare.

La questione (sia chiaro!) è genuinamente nazionale: stando a Confesercenti, i commercianti vittime di racket e/o usura l’anno scorso sono stati 200mila (lo 0,3% dell’intera popolazione italiana…) per un giro d’affari da 20,5 miliardi di euro (15 per il prestito “a strozzo”, 5 e mezzo dal racket). Considerato che si tratta di reati prettamente realizzabili sotto l’ala protettiva del crimine organizzato, diciamo che una gran fetta di questi 200mila usurati e/o vessati dal racket delle estorsioni si concentra classicamente nelle quattro regioni a maggior rischio-mafia (Calabria, Sicilia, Campania e Puglia – non necessariamente in quest’ordine). Risultato: nel 2008, le denunce in tutto il Paese sono state 5.400.

E il disaggregato su scala calabrese mostra dati ancor più sconfortanti: stando al presidente di Sos Impresa Lino Busà (ancora dati 2008), 15mila sono le aziende calabresi costrette a versare il “pizzo”, 10.100 quelle finite sotto il giogo dell’usura. Però…

Però, a fronte di circa 25mila imprenditori e commercianti “nel mirino”, le denunce per racket e usura in tutta la Calabria, nell’interno 2008, sono state solamente 94. Meno di 100. Meno dello 0,4% delle persone colpite da questi reati ha trovato il coraggio di alzare la propria voce e rompere la catena dell’omertà.

…Mah.

E questo cancro sta avviluppandosi sempre più all’interno degli Enti pubblici, delle Amministrazioni locali. In questo senso il burocratese del prefetto reggino Luigi Varratta – in totale buonafede, specifichiamolo benché superfluo  – sulla necessità da parte delle vittime d’estorsioni e degli usurati a «dimostrarsi più collaborativi»e «avere il coraggio di prendere le distanze e respingere le pressioni» è sul filo del paradosso.

Ma la cosa più deleteria è che lo Stato e le sue articolazioni territoriali, finanche, su un fenomeno talmente complesso non hanno una linea unitaria.

Solo 48 ore fa, la “commissione Bongiorno” alla Camera ha detto definitivamente “sì” alla legge antiusura e antiracket che, tra l’altro, prevede ingenti sgravi fiscali (quanto alle imposte comunali) per le vittime che denuncino i loro aguzzini. Invece tre settimane addietro, sull’onda della “linea Lo Bello” (chi paga è fuori, la sintetizzeremo per comodità), la commissione Antimafia dell’Ars (l’Assemblea regionale siciliana) ha dato il “disco verde” al ddl che sanziona con l’esclusione dalle gare d’appalto della Regione guidata da Fefè Lombardo le imprese vittime di estorsioni o strozzinaggio le quali non trovino la forza di reagire denunciando.

…Che fare, allora?

Anche stavolta citeremo il geracese Gratteri, magistrato di sicura esperienza e che mai ha avuto problemi, a costo di posizioni impopolari, nel guardare in faccia la verità: «Inutile insistere sui commercianti, sui cittadini normali, cioè sulla parte più debole ricorrendo al “se non denunci ti cancello”. La prima cosa da fare è creare un sistema giudiziario che disincentivi la delinquenza».

E …cioè? Per il procuratore aggiunto reggino, i fari vanno puntati sul rapporto che esiste tra minimo e massimo edittale e falle del sistema detentivo: ad esempio, per il reato d’usura è prevista la carcerazione da un minimo di 2 anni a un massimo di 10 ma «in media, un usuraio resta in prigione due anni e mezzo». Si può fare di meglio.

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